
Quando si parla di mummie, spesso si pensa immediatamente a corpi conservati nel tempo, ma quali sono i diversi metodi di conservazione dei cadaveri e cosa possono rivelarci sulla storia? Questo articolo offre un approfondimento sui vari processi di mummificazione e imbalsamazione, svelando i segreti di queste pratiche antiche.
Mummificazione: un processo naturale
La mummificazione è un fenomeno che si verifica in particolari condizioni climatiche e geologiche. Si differenzia nettamente dall’imbalsamazione, poiché avviene in modo completamente naturale. Un esempio emblematico è la mummificazione per azione termica, dove il calore secca i tessuti del corpo. Tuttavia, anche il freddo intenso può contribuire a questa forma di conservazione, come dimostra la famosa mummia di Ötzi, risalente a circa 3200 a.C., rinvenuta sulle Alpi.
Un altro metodo naturale è quello della mummificazione nelle torbiere, dove i corpi si conservano grazie all’azione dello sfagno, all’acidità dell’acqua, alle basse temperature e alla mancanza di ossigeno. Questo processo è tipico delle zone umide del Nord Europa, in particolare in Gran Bretagna e Irlanda, dove numerosi resti umani sono stati scoperti in condizioni sorprendenti.
Come si ottiene la mummificazione intenzionale
In alcune situazioni, l’uomo ha sfruttato le condizioni favorevoli per ottenere una mummificazione intenzionale. Un esempio significativo è rappresentato dalle mummie delle catacombe della cripta dei frati cappuccini di Palermo, risalenti tra il XVI e il XX secolo. Qui, i corpi venivano sottoposti a un processo di “scolatura”, che consentiva il deflusso dei liquidi cadaverici, contribuendo alla loro conservazione. Questo metodo dimostra come l’intervento umano possa amplificare le condizioni naturali per preservare i resti.
Imbalsamazione: dagli Egizi ai giorni nostri
Contrariamente alla mummificazione naturale, l’imbalsamazione è un processo che richiede un intervento umano. Sin dal VI-IV millennio a.C., gli antichi Egizi praticavano l’eviscerazione, rimuovendo gli organi interni e, in alcuni casi, sostituendo pelle e carne con argilla. Durante il III millennio e fino al I secolo a.C., dopo l’eviscerazione, le cavità venivano riempite con lino impregnato di resina. Questo metodo permetteva una conservazione duratura, con l’uso del natron, una miscela di sali di sodio che assorbiva i liquidi organici. I corpi venivano poi avvolti in bende di lino, una pratica ben nota degli Egizi.
Nel XVI secolo, gli imbalsamatori iniziarono a utilizzare tecniche simili a quelle degli Egizi, continuando fino all’Ottocento. Tuttavia, a partire dal XVII secolo, si svilupparono nuove pratiche, come l’iniezione di sostanze disidratanti e antiputrefazione. Il medico palermitano Giuseppe Tranchina perfezionò queste tecniche, portando all’abbandono dell’eviscerazione negli anni Trenta dell’Ottocento. Le sue innovazioni, tra cui l’uso di arsenico bianco e cinabro, segnarono un cambiamento significativo nelle pratiche di imbalsamazione. Altri metodi chimici, derivati da mercurio e arsenico, rimasero in uso fino all’inizio del XX secolo, quando Alfredo Salafia, un noto imbalsamatore siciliano, introdusse la formalina, rivoluzionando ulteriormente il settore.
Oggi, l’imbalsamazione è ancora praticata, sebbene in modo diverso, attraverso la tanatoprassi, una forma di imbalsamazione temporanea che consente di mantenere le spoglie per esposizioni prolungate.
La formula segreta della pietrificazione
Nel XIX secolo, il naturalista ed egittologo veneto Girolamo Segato, attivo tra il 1792 e il 1836, sviluppò una tecnica innovativa conosciuta come pietrificazione. Questo metodo prevedeva il riempimento del corpo, o di sue singole parti, con sali minerali seguendo una formula segreta che conferiva al cadavere una consistenza simile a quella della pietra. Questa pratica rappresenta un ulteriore esempio dell’ingegnosità umana nella conservazione dei resti mortali, aggiungendo un capitolo affascinante alla storia della mummificazione e dell’imbalsamazione.