
“La legge è uguale per tutti“, afferma il famoso motto che si può leggere in ogni aula di giustizia. Ma è davvero così? Se si considera che per secoli il genere maschile ha avuto il monopolio della creazione delle norme, costruendo una gabbia di leggi che ha limitato la libertà delle donne, la risposta sembra piuttosto complessa. Le donne, considerate oggetti, confinate tra le mura domestiche e sottoposte al volere degli uomini, hanno sofferto per secoli semplicemente perché erano diverse.
Fausto Pagnotta, docente di Storia delle donne nel pensiero politico e Sociologia delle discriminazioni di genere all’Università di Parma, sottolinea che «le origini delle discriminazioni di genere affondano le radici in una visione androcentrica e patriarcale condivisa da diverse culture e epoche storiche fino ai giorni nostri». Nonostante le differenze di contesto e periodo, tutte queste discriminazioni avevano un elemento comune: l’egemonia maschile sul genere femminile, spesso giustificata da norme sociali.
Proprietà privata
Già nel XVIII secolo a.C., il Codice di Hammurabi, re di Babilonia, chiariva che la donna “è proprietà del marito e la figlia nubile è proprietà del padre“. Questa concezione è rimasta invariata per secoli. Cicerone, oratore latino del 63 a.C., affermava che “I nostri antenati vollero che le donne, a causa della loro debolezza di giudizio, fossero soggette alla potestà di tutori“, richiamando la Legge delle XII tavole, un insieme di norme redatto nel 451-450 a.C. da una commissione di nobili romani.
Nell’urbe
Questa voglia di controllo si manifestava in molteplici abusi. «A Roma, il ius corrigendi rappresentava una vera e propria potestà educativa e correttiva, esercitata dal pater familias su moglie e figli, anche attraverso l’uso della forza», spiega Pagnotta. Questa pratica, ben documentata nel tardo impero e nel Medioevo, è rimasta in vigore in Italia fino al 1956, quando la Corte di Cassazione l’ha abolita.
Le disparità di trattamento iniziavano fin dalla nascita: nell’VIII secolo a.C., Romolo, il leggendario fondatore di Roma, si preoccupava di punire i padri che abbandonavano o uccidevano i figli maschi, ma non quelli che facevano lo stesso con le figlie femmine.
«Le discriminazioni di genere nelle civiltà antiche servivano a organizzare la società in modo gerarchico e a definire i ruoli maschili e femminili. Questo portava all’esclusione delle donne dalla vita politica e dalla gestione del potere, a meno di rare eccezioni, come le regine. Un esempio è l’antico Egitto».
Legge salica
Un esempio emblematico è la Legge salica, redatta dal re dei Franchi Clodoveo I nel VI secolo, che all’articolo 59.5 stabiliva l’impossibilità per le donne di ereditare terre. Questa norma è stata utilizzata in Europa dal XIV secolo fino all’età moderna per escludere le donne dalla successione al trono. L’idea era che la “natura femminile” fosse un ostacolo all’esercizio del potere, simile alla percezione delle matrone romane, considerate “instabili e frivole” e quindi non idonee a ricoprire cariche pubbliche, come scriveva il giurista Ulpiano nel II secolo.
Legislatori maschi
Molti potrebbero pensare che queste siano questioni appartenenti a un passato remoto. Ma se ci spostiamo nell’Italia di fine Ottocento, la situazione non è molto diversa. Il 9 agosto 1883, Lidia Poët diventa la prima donna ad iscriversi all’Ordine degli avvocati, ma dopo soli tre mesi, la Corte d’appello di Torino annulla la sua iscrizione, sostenendo che “l’avvocatura fosse un ufficio riservato esclusivamente ai maschi“. Le giustificazioni erano imbarazzanti e misogine, riguardanti i “limiti che si conviene al sesso più gentile” e l’eventualità di “abbigliamenti strani” che avrebbero potuto apparire inappropriati.
In diverse città greche, le donne erano soggette al controllo dei “gineconomi”, magistrati responsabili della sorveglianza dei comportamenti femminili, incluso il modo di vestire e l’uso di cosmetici durante le uscite pubbliche.
Emarginate
Una situazione simile si riscontrava anche a Roma con la Lex Oppia, introdotta nel 215 a.C. per limitare l’esibizione della ricchezza da parte delle donne. Le matrone, considerate virtuose, non potevano indossare gioielli oltre a una certa quantità di oro, vestirsi con colori vivaci o utilizzare carrozze.
Al contrario, le donne nobili di Atene, pur vivendo in una società culturalmente avanzata, erano costrette a rimanere chiuse in casa, nel gineceo, senza diritti e senza la possibilità di possedere beni o fare testamento.
La loro testimonianza in tribunale era spesso ritenuta inaffidabile, a causa della presunta “natura impressionabile”. Anche se riconosciute in alcuni rituali religiosi, le donne erano escluse dai celebri giochi olimpici, una tradizione difesa con vigore nel 1896 dal barone Pierre de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne.
La “rivoluzionaria” Francia
Nel 1789, durante la Rivoluzione Francese, le donne che lottavano per la “libertà, uguaglianza e fraternità” erano escluse dal voto e da qualsiasi carica politica, poiché la legge le escludeva dalla vita pubblica. Quando Olympe de Gouges scrisse la prima Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, affermando che “la donna nasce libera” e ha diritto di salire alla tribuna, fu ghigliottinata nel 1793, accusata di aver trascurato le virtù femminili.
Adulterio
La sessualità femminile, sempre temuta dagli uomini, era vista come una minaccia per la legittimità della prole. L’adulterio era un reato grave, punito severamente. In Babilonia, Grecia, Roma e nel Medioevo, una donna infedele rischiava di pagare con la vita, mentre gli uomini non subivano le stesse conseguenze. Catone, oratore latino, affermava: “Se scopri tua moglie in adulterio, senza giudizio la ucciderai.” Le donne venivano spesso giudicate da tribunali domestici e, a seconda della gravità del reato, potevano essere escluse dalla vita pubblica o addirittura condannate a morte.
La dura vita della matrona
Le punizioni erano talvolta anche più severe: la moglie di Egnazio Metennio, che si era concessa un bicchiere di vino, fu uccisa dal marito, che si giustificò invocando una legge di Romolo. Senza il consenso del marito, una donna non poteva abortire, pena la persecuzione pubblica. Tuttavia, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., le matrone riuscirono a conquistare spazi di libertà personale e sociale.
Affari di famiglia
Per contrastare la situazione, l’imperatore Augusto promulgò nel 18 a.C. la Lex Iulia de adulteriis coercendis, rendendo il tradimento un crimine pubblico. Questa legge, però, non ebbe successo, poiché gli uomini la vedevano come un’intrusione dello Stato nelle questioni familiari. Le donne, in risposta, si registravano come prostitute per ottenere l’immunità. Gli imperatori, in seguito, inasprirono le pene, ripristinando anche la condanna a morte, un giro di vite supportato dalla morale cristiana, che sottolineava la sottomissione della moglie al marito.
Verso i diritti
Nonostante i progressi, la strada verso l’uguaglianza è stata lunga e tortuosa. Solo 55 anni fa, l’articolo 559 del Codice penale italiano prevedeva un anno di prigione per la moglie adultera e il suo amante, mentre il marito veniva punito solo se viveva con l’amante. Pagnotta commenta: «L’emancipazione delle donne è un percorso ancora in corso, pieno di sfide e incertezze. Le conquiste ottenute possono sempre essere messe in discussione o negate». Oscar Wilde diceva: “Date alle donne occasioni adeguate ed esse potranno fare tutto“. Tuttavia, è chiaro che questo è un timore condiviso dagli uomini.